di Antonio Facchin
Se intelligenza artificiale e femminicidio sono state le parole più ricorrenti nella narrazione dell’anno appena conclusosi, terrorismo rischia di essere il “sottotesto” del 2024. Anno in cui ben 4 miliardi di persone si recheranno alle urne, in 76 paesi. Molti di questi con regimi illiberali, dove il terrorismo è il vessillo brandito per perpetuare il potere. Altri con democrazie messe in serie difficoltà da derive nazionalistiche tristemente note.
Sentimento cui siamo ormai abituati ad associare connotazioni “moderne” come sanitario, climatico, informatico, la Storia insegna che il terrore è da sempre un instrumentum regni quando è esercitato dai governi. Si definisce terrorismo se è “metodo di lotta politica organizzato da gruppi rivoluzionari e sovversivi che, considerando impossibile conseguire con mezzi legali i propri fini, tentano di destabilizzare o rovesciare l’assetto politico-sociale esistente con atti di violenza organizzata”; va da sé che evidentemente le vie alternative siano state già inutilmente percorse, nel migliore dei casi.
Nulla può giustificare il terrorismo. Ma ogni fenomeno ha almeno una causa, e il terrorismo non fa eccezione. E troppe volte lo spauracchio del terrorismo è servito a giustificare la guerra: come quelle seguite all’attentato alle Twin Towers, recentemente sconfessate dallo stesso Joe Biden. O come nel caso del recente conflitto di Israele contro Hamas, o del progetto di Putin di “denazificare” l’Ucraina: guerre che è difficile distinguere dai genocidi, per evitare le quali a nulla valgono le condanne internazionali per crimini di guerra.
Bangladesh, primo paese alle urne
I primi a recarsi alle urne saranno i cittadini del Bangladesh che, domani 7 gennaio, dovranno scegliere tra due candidate: Sheikh Hasina, leader della lega Hawami, che aspira al suo quinto mandato (ininterrottamente al potere dal 2009), e Khaleda Zia. Leader del Bnp, il partito nazionalista bollato dalla Hasina come terrorista e violento, la Zia è un’oppositrice storica della Hasina, agli arresti domiciliari dopo due mandati con l’accusa di corruzione. Un “caso” che ricorda, con le dovute proporzioni, quello di Aleksej Navalny.
Tarique Rahman, che vive in esilio a Londra da cui guida il partito dal 2018, anno dell’arresto di Khaleda Zia, sua madre, ha invitato a boicottare il voto. Il risultato è infatti scontato e le elezioni sono di fatto una farsa: forte di un Pil e prestigio internazionale in crescita, la vittoria di Hasina è data per certa, in un paese in cui l’opposizione – se non eliminata con ogni mezzo – è in prigione, l’inflazione galoppa, il costo della vita aumenta e il governo ha il monopolio dei pochi posti di lavoro. Inutile dire che si vota in un clima di tensione: da quando le elezioni sono state indette (28 ottobre) il bilancio degli scontri è di almeno 6 morti.
Taiwan e la minaccia cinese
Sabato 13 gennaio si voterà a Taiwan, nazione democratica minacciata da un’invasione militare, in un clima di calma apparente. Nel paese, scenario degli “equilibri” tra Cina, Russia e Stati Uniti, la forma di terrorismo adottato al momento è quello informatico, sotto forma di sistematici attacchi di hackeraggio che, già da qualche tempo, mirano a spiare e indebolire il paese. Tre gli schieramenti in lizza: il Partito democratico progressista, al governo negli ultimi 8 anni a salvaguardia dell’indipendenza dalla Cina; il Kuomintang, partito che gravita nell’orbita cinese; il Partito popolare che, nonostante sia quello preferito dai giovani, è in svantaggio.