Caccia al nero, libro-verità sulla “fabbrica del falso” nei talk show populisti

Caccia al nero - Confessioni di un insider della Tv populista

di Marco Zonetti

La musica da film horror. Il montaggio rapidissimo costellato di immagini shock. I titoloni altisonanti. Il coro della “gente arrabbiata” in piazza. Tutti abbiamo in mente i classici servizi dei talk show della tv cosiddetta populista, quelli funzionali a far scattare l’indignazione dei telespettatori contro il “cattivo” di turno, chiunque esso sia.

Ma chi pensava che la struttura di tali servizi fosse studiata ad arte soltanto per quanto riguarda la forma deve ricredersi. Un libro edito da Chiarelettere dal titolo Caccia al Nero – Confessioni di un insider della Tv populista ci svela infatti che gli stessi contenuti veicolati dai suddetti talk show sono di fatto manipolati ad hoc.

Caccia al nero, uscito in libreria il 13 settembre, è il racconto e la testimonianza in presa diretta di un insider della Tv populista che, per un anno, ha lavorato nella trasmissione di un’importante emittente privata. La narrazione parte quindi dall’esperienza diretta del giornalista in redazione, ma non solo. Prima di redigere il testo l’autore è infatti divenuto punto di riferimento di numerosi ex lavoratori e lavoratrici della tv populista che hanno deciso di rendere note le loro storie, dando così vita a un lavoro di denuncia collettivo raccolto nel primo libro che racconta dall’interno la manipolazione dell’informazione trasformata in spettacolo.

La narrazione è divisa in grandi temi, fra i quali spicca un argomento attualissimo in questa campagna elettorale, ovvero il reddito di cittadinanza. Reddito di cittadinanza, come c’illustra il libro, demolito in un servizio televisivo rimaneggiato ad arte per sottolineare che il sussidio impedisce agli imprenditori di trovare lavoratori al Sud – nella fattispecie un’azienda di autotrasporti palermitana.

L’idea del servizio, come racconta Caccia al nero, prende il via da un articolo di giornale: “Palermo, imprenditore cerca dipendenti a tremila euro al mese. Colloqui deserti, nessuno vuole rinunciare al reddito”. In realtà il reddito di cittadinanza non c’entra nulla: “il fatto è che per guidare il camion serve la patente C e la patente costa un occhio della testa. Semplicemente molti disoccupati non potevano permettersela. Perciò, dopo aver inviato il curriculum, finivano per fare marcia indietro ritirando la propria candidatura”.

Prima di realizzare il servizio in questione, il giornalista precario appena assunto nella redazione del talk scopre questa semplice realtà e pensa di aver fatto lo scoop del secolo. Comunicandolo a chi di dovere ha però un’amara sorpresa: delle patenti C alla redazione non può fregare di meno. “Non c’interessa fare una puntata sulle patenti” gli rispondono seccamente. “Non stiamo facendo una puntata sulle patenti, a noi interessa il reddito di cittadinanza”. Con voce stizzita gli viene ribadito: “Vuoi fargli dire delle patenti? Va bene, faglielo dire. Ma il pezzo deve chiudersi con la storia del reddito. ‘La gente se ne sta a casa perché c’è il reddito’, così deve dire il tizio (l’imprenditore). Deve dire come c’è nell’articolo, okay?”.

I “lavativi” che non avevano voglia di lavorare e che percepivano i soldi dello Stato a scrocco, insomma, racconta Caccia al nero, “erano tutti operai disoccupati e squattrinatissimi, che se solo avessero potuto permettersi quella maledetta patente di guida avrebbero iniziato a lavorare seduta stante. La loro unica colpa era quella di non avere i soldi per iscriversi all’autoscuola”. Al suo primo incarico importante in una trasmissione di prima serata su una Tv nazionale, il giornalista – che proviene da situazioni assurde di precariato nei giornali locali dove pagano la miseria di cinque euro lordi ad articolo – si vede costretto a fare buon viso a cattivo gioco e si piega così a “fabbricare il falso”. Del resto, come gli rammenta la sua responsabile, “l’onestà a volte bisogna imparare a lasciarla a casa”.

E il messaggio veicolato dal talk ai telespettatori, complici le lamentele dell’imprenditore palermitano immortalate dalle telecamere e rimaneggiate ad arte in post-produzione, è che a causa del reddito di cittadinanza non si riesce più a trovare manodopera poiché quest’ultima preferisce starsene a casa sul divano a percepire cinquecento euro dallo Stato anziché guadagnarne tremila faticando.

L’amara disamina prosegue raccontando la manipolazione televisiva ai danni di altri “nemici” di turno, “gli zingari coi macchinoni mentre gli italiani muoiono di fame”, con relativi servizi costruiti per mostrare soltanto che i rom rubano, senza indugiare sulle condizioni in cui vivono nei campi nomadi dove “manca il gas e il Comune non gli porta via l’immondizia”.

E nel caso in cui nei campi rom non si trovino le Mercedes o i macchinoni del claim poco importa: “se la notizia non c’è bisogna inventarla” è quello che apprende il giornalista durante la sua esperienza nella redazione del talk show. Uno dei servizi sui rom diventa virale e assume perfino un connotato istituzionale il giorno successivo, quando un “potente politico di Destra” riposta sui suoi profili social il video della trasmissione con una grossa scritta in sovrimpressione: “Che dite amici? Non sarebbe ora di far arrivare una ruspa?” (riferimento neanche tanto velato al leader della Lega Matteo Salvini).

In redazione l’autore di Caccia al nero impara anche il meccanismo delle “piazze” e della gente arrabbiato-indignata che compare nei collegamenti con striscioni e cartelli. Gente che in realtà fa parte dei cosiddetti comitati di quartiere e che viene chiamata alla bisogna dalla redazione. “Solo a Milano ce ne saranno una ventina. Sono quelli che fanno le ronde, hai presente?” gli spiega un collega navigato. “Funzionano sempre bene, specie quando parliamo di immigrazione, zingari e robe così. Tu li chiami e quelli vengono. Sono belli incazzosi, come piace a noi“.

“Ed è con loro che fate le piazze?” domanda il neo assunto precario. “Anche con loro, certo” gli risponde l’altro. “Be’, è chiaro, dipende dal tema della puntata. Quelli più forti li invitiamo anche in studio. Sai, li mettiamo in mezzo al pubblico, che più o meno funziona sempre come una pizza. Gli interventi sono tutti programmati. Sono scritti sul copione e servono a ravvivare un po’ il dibattito […] A volte facciamo fare dei cartelli. Anche quelli devono contenere messaggi semplici. Che so, ‘Basta tasse’ oppure ‘No all’immigrazione’. La gente deve mostrarli durante le dirette. Poi viene stabilita una scaletta degli interventi. Tizio deve dire questo e questo, Caio questo e quest’altro. Il giornalista si limita a far girare il microfono, ma siamo noi che selezioniamo le storie e decidiamo quali mandiamo in onda“.

Il precario è sgomento: “E quelli si prestano così, senza problemi?”. L’altro ribatte: “Ci puoi scommettere! Hanno l’occasione di dire quello che pensano davanti a milioni di persone. Più strillano e più ci piacciono. Loro sono contenti e noi facciamo un po’ di spettacolo. E’ un meccanismo piuttosto semplice, ti pare?”.

“Il meccanismo” – leggiamo su Caccia al nero – era effettivamente molto semplice. Si basava sul presupposto che la realtà potesse venire sezionata e ricomposta senza mai smettere di essere reale. Il principio era quello del giornalismo a tesi, ma spinto fino alle estreme conseguenze e con due vistosi paraocchi ben saldati sulla testa […] Perché mentire, quando puoi selezionare le verità che ti piacciono di più?“.

Particolarmente interessante la questione del Covid, che nel febbraio 2020 irrompe in Italia scompaginando la narrazione dei talk show, deprivati del pubblico in studio e costretti a rivedere tutti i contenuti sensazionalistici. Parliamo dell’inizio della pandemia, quando il nemico dichiarato era solo e soltanto il virus e dilagava la celebrazione dei medici e degli infermieri in prima linea (i tempi dei no vax e no green pass erano ancora lontani). “A chi mai si poteva affibbiare il ruolo del cattivo?”, occorreva trovare un capro espiatorio contro cui scatenare l’indignazione generale.

La scelta ricade sui cinesi “untori” che banchettano con cani e pipistrelli. Il servizio in questione fa il picco di share e il giornalista apprende l’ennesima lezione: “La gente si è stufata di sentir parlare di morti e di ospedali. Da oggi ricomincia tutto come prima!” tuonano i responsabili. “E infatti tutto ricominciò”.

Caccia al nero fa altri esempi piuttosto inquietanti di “costruzione” della realtà nella sua ricognizione nei bassifondi della Tv populista, ma offre anche un amaro spaccato di quello che è diventato il mestiere del giornalismo, popolato di precari sfruttati per pochi euro e quindi spesso disposti a distorcere le informazioni e a manipolarle secondo i dettami dello share televisivo e delle visualizzazioni in rete.

E il libro edito da Chiarelettere getta altresì una livida luce sul rapporto fra le Istituzioni e la Tv sensazionalistica, laddove l’esponente di Sinistra si presta a farsi gettare una marea di fango in diretta dal suo interlocutore di Destra per semplice “visibilità, che per un politico è come la manna dal Cielo”. Per non parlare degli scrittori di Sinistra e degli intellettuali. “Quelli perché vengono in trasmissione?” domanda ingenuamente il precario. “Ah, quelli lo fanno per soldi” ridacchia un collega. “Mica partecipano gratis, che ti credi?”.

Ignaro sulla cifra a cui possano ammontare i gettoni di presenza – che nella Tv commerciale sono piuttosto cospicui – il malcapitato può solo osservare avvilito l’intellettuale di Sinistra a fine trasmissione andarsene tranquillamente a cena con il conduttore e i parlamentari di Sinistra e di Destra, dopo essersi dilaniati in diretta Tv, raggiungere a braccetto il bar. La consumazione è offerta dagli autori. Che evidentemente li considerano “parte della squadra”.

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