La Deposizione di Raffaello torna alla Galleria Borghese dopo il restauro

Deposizione di Raffaello
La Deposizione di Raffaello

Come la natura insegna che a ogni inverno segue sempre la primavera, e la storia che il Rinascimento non vi sarebbe stato senza il Medioevo, anche il periodo che stiamo vivendo sta rivelando delle insperate opportunità. Soprattutto nel comparto artistico. La chiusura dei musei ha infatti colpito duramente il settore (anche se non ha risparmiato alcun settore economico), ma ha anche offerto l’opportunità di fotografare in 67 notti, in gigapixel, la Cappella Sistina (come scritto nei giorni scorsi). Oppure quella di riallestire, fra le pareti della Galleria Borghese, la Deposizione di Raffaello restaurata, ripensandone posizione e illuminazione. Con un sistema di trasporto degno di nota considerando il valore inestimabile e le considerevoli dimensioni della tela. Che non hanno impedito che diventasse in 514 anni “un oggetto mobile del desiderio”, come l’ha definita Dario Pappalardo su Robinson, supplemento odierno de La Repubblica.

Un capolavoro di un certo peso

Se Leonardo partì un bel giorno per la Francia con la Gioconda sotto il braccio, la Deposizione di Raffaello – il cui restauro è appena terminato, a breve dallo scadere dei cinquecento anni dalla morte dell’autore – è un capolavoro da quasi 4 metri quadri di superficie e settanta chili di peso. Realizzato su una tavola di pioppo che, in cinque secoli, ha subìto un inevitabile processo di deformazione, che d’ora poi sarà contenuto. L’opera subirà dunque un costante monitoraggio per mezzo di una sofisticata tecnologia mutuata dall’ingegneria aerospaziale.

Breve storia dell’oggetto mobile del desiderio

Si deve ad Atalanta Baglioni la commissione dell’opera in memoria del figlio Grifonetto (rappresentato dal giovane che nel dipinto porta il Cristo) morto in una congiura, che Raffaello non mancò di datare (1507) e firmare. Perché restasse per un secolo nella cappella di famiglia in San Francesco al Prato, a Perugia. Fin quando, nella notte tra il 18 e il 19 marzo 1608, venne trafugata su commissione di Papa Paolo V. Si narra infatti che, con qualche complicità interna, la tavola venne sottratta e calata dalle mura della città, nonostante valore, dimensioni e peso. L’operazione seguì per certo tutte le accortezze prese durante il recente ricollocamento nella cornice e il riallestimento come descritto sulle pagine de La Repubblica, se solo consideriamo il committente dell’impresa.

Ma quando il cardinale Scipione Borghese la ricevette in dono la galleria omonima era di là da venire. L’opera infatti rimase per un periodo nel Palazzo di Borgo in Vaticano per poi finire a Palazzo Borghese. Sarà Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, a trasportare il dipinto a Parigi col progetto di collocarlo nella collezione universale, progetto del Bonaparte cognato.  E sarà la disfatta di Waterloo a deciderne il destino: l’opera tornò a Roma per essere collocata nella Galleria Borghese dalla seconda metà dell’Ottocento fino allo scorso anno. Tanto è durato il restauro curato da Carla Bertorello e Roberto Saccuman.

Galleria Borghese
Galleria Borghese (ph. F. Vinardi)

Una preziosa occasione per digitalizzare un enorme patrimonio artistico

Intanto, mentre il museo è chiuso al pubblico, all’interno c’è gran fermento. Non solo per ricollocare la Deposizione, ma anche per calibrare un’illuminazione che metta in risalto il pregio del restauro. Oltre al noto pregio di un’opera complessa: dieci soggetti a comporla, su un soggetto ispirato da Michelangelo (è un chiaro omaggio alla Pietà), che verrà ripeso a un secolo di distanza da Caravaggio. La neodirettrice Francesca Cappelletti (di cui già abbiamo trattato), sta infatti lavorando alla digitalizzazione della Galleria, sul modello del Metropolitan di New York e della National Gallery di Londra. E alla ricollocazione di alcune opere. Da quando, all’inizio di questo mese, ha assunto la carica di direttrice di una galleria ricchissima di capolavori che tutto il mondo ci invidia. Di cui anche i depositi sono spazi museali di pubblico accesso. O almeno torneranno a esserlo dal 4 dicembre.

Antonio Facchin