di Antonio Facchin
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Anche febbraio è mese di elezioni per i numerosi paesi (7 dei 73 per dovere di precisione, esclusi Bangladesh, Taiwan e Isole Comore che lo hanno fatto a gennaio) chiamati alle urne per il rinnovo dei loro governi. Voteremo anche noi, com’è noto, l’8 e 9 giugno per designare i nuovi vertici dell’Unione Europea (76 parlamentari su un totale di 720) e di qualche amministrazione provinciale, con la precedenza per Sardegna e Abruzzo. Conosciamo bene le nostre modalità di voto: un dovere ma soprattutto un diritto. Ma non è sempre stato così, e non vale in tutto il mondo. Ci siamo dunque mai chiesti come si vota all’estero?
In Senegal e Mali non si vota: si rinvia
Il Senegal ha accolto la decisione di rinvio del voto previsto per il 25 febbraio tra disordini, proteste, incidenti e più di un’iniziativa di repressione. Anche se da fonti d’informazione francesi si è appreso che il Consiglio costituzionale della nazione ha dichiarato incostituzionale la legge che rinvia le elezioni presidenziali al 15 dicembre 2024 annullando così il decreto del presidente Macky Sall. La decisione arriva in un momento in cui il paese, un tempo considerato un modello di stabilità in Africa, sta affrontando una delle crisi politiche più gravi degli ultimi decenni. Il numero di candidati insolitamente elevato (20 a fonte dei 5 candidati del 2019) potrebbe dunque essere l’indice migliore contro le preoccupazioni di potenziali minacce alla democrazia – ma anche l’esatto contrario – in un’Africa occidentale, già alle prese con una serie di colpi di stato.
Come nel caso del Mali dove la giunta militare del colonnello Assimi Goïta, che ha rovesciato il governo democraticamente eletto di Ibrahim Boubacar Keïta nell’agosto 2020, ha rimandato le elezioni di inizio febbraio a data da destinarsi. Nonostante Keïta avesse infatti vinto un secondo mandato di 4 anni in elezioni credibili nel 2018 con il 67% dei voti, la giunta militare di Goïta ha eseguito un altro colpo di stato nel maggio 2021. Quando il presidente di transizione Bah Ndaw e il suo primo ministro, Moctar Ouane, hanno iniziato a prendere misure per organizzare elezioni in linea con l’impegno della giunta per una transizione di 18 mesi che avrebbe dovuto culminare con le elezioni nel febbraio 2022. La giunta ha da allora ridotto drasticamente lo spazio democratico, intimidendo gli oppositori politici e gli attori indipendenti della società civile, minacciando i giornalisti e sospendendo i media “critici”. Dimostrandosi apertamente ostile anche verso le indagini delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani.
In Pakistan si sospettano brogli pre-elettorali
Premesso che l’immagine scelta è a mera dimostrazione delle differenze tra le nostre modalità di voto e quelle di un’altra nazione (dove il voto femminile è spesso osteggiato da una profonda cultura patriarcale), il Pakistan ha votato l’8 febbraio il rinnovo della 16° Assemblea nazionale e dopo più di tre giorni (troppi per dissipare il sospetto di brogli), sono stati resi noti i nomi dei deputati della cosiddetta camera bassa del parlamento: quella che poi designerà il nuovo primo ministro. Avrebbero vinto, ricorrendo a un’escamotage, i candidati sostenuti dall’ex primo ministro Imran Khan, attualmente in carcere, legati al Movimento per la Giustizia (PTI). Votando cioè da indipendenti, con simboli diversi da quello ufficiale del partito, dichiarato illegale da una sentenza della Corte suprema, per poi coalizzarsi a urne chiuse.
Ma anche la parte avversa, che fa capo a Nawaz Sharif, l’ex primo ministro nonché leader della Lega musulmana pachistana (PML-N), ha dichiarato vittoria. E l’avrebbe ottenuta, di fatto, avendo conquistato 75 seggi a fronte dei 101 della coalizione sui 264 totali. Né il PTI né il PML-N, comunque, hanno ottenuto voti a sufficienza per detenere la maggioranza in parlamento, cioè 169 seggi. La camera bassa del parlamento pakistano è composta in tutto da 336 seggi, ma solo 266 sarebbero assegnabili per elezione poiché 70 seggi sono riservati: 60 per le donne e 10 per i non musulmani, distribuiti ai partiti in proporzione ai voti ottenuti. Non avendo un partito, i seggi riservati sono così preclusi agli eletti sostenuti da Khan rischiando anche di perdere il vantaggio acquisito con il voto. Le loro possibilità di formare un governo passano dunque da un accordo con un partito minore in funzione di una coalizione di governo. Un’ipotesi ventilata da AlJazeera che vedrebbe il PTI unito al Majlis Wahdat-e-Muslimeen, il partito sciita vicino alla politica di Khan.
El Salvador riconferma Nayib Bukele alla presidenza
Il 4 febbraio El Salvador, piccolo stato dell’America centrale, ha votato la riconferma di Nayib Bukele, dopo un lungo esame dei voti, nonostante le elezioni abbiano impegnato meno di 3 milioni di votanti (pari a poco meno di metà della popolazione). Bukele, membro del partito conservatore e populista Nuevas Ideas, era stato già eletto nel 2019 per aver saputo contrastare le bande criminali che negli ultimi tempi avevano reso El Salvador il paese con il più alto tasso di omicidi dell’America Latina; sebbene con metodi spesso considerati troppo radicali come la costruzione di un penitenziario della capienza di 40 mila detenuti. La sua vittoria era quindi scontata.
In Bielorussia Lukashenko ricorre a garanzie, immunità e privilegi
Il prossimo weekend la Bielorussia voterà in un clima autoritario tra censure, brogli e messe al bando, come ormai accade dal 1990, anno dell’indipendenza del paese, per rinnovare la Camera dei rappresentanti: la camera bassa composta da 110 membri eletti con voto uninominale a turno unico. Il presidente Alexander Lukashenko, ha nel frattempo “blindato” i suoi mandati presidenziali con un decreto a garanzia della piena immunità, per sé e famiglia, contro eventuali azioni penali; negando di fatto la possibilità ai leader delle opposizioni che vivono all’estero di candidarsi alle prossime elezioni. Stabilendo che requisito imprescindibile per candidarsi alle elezioni sarà d’ora in poi l’aver vissuto ininterrottamente in Bielorussia per almeno vent’anni. Precludendone così la candidatura alla sua principale oppositrice, Sviatlana Tsikhanouskaya, esule lituana dal 2020, il cui caso ricorda con le dovute proporzioni quello di Aleksej Navalny. Il nuovo decreto prevede anche che il presidente e la sua famiglia abbiano diritto a vita alla scorta, e a una serie di privilegi garantiti fino alla fine del suo mandato.
Alexander Lukashenko è noto per aver militato nell’esercito sovietico fino al 1982. Nel 1990 venne eletto al Soviet bielorusso. Fondò il partito Comunisti per la democrazia opponendosi allo scioglimento dell’URSS avvenuto nel 1991. Nel 1993 ebbe l’incarico di presiedere una commissione di controllo sulla corruzione che lo rese popolare. Nel 1994 si candidò e risultò eletto con percentuali plebiscitarie alla carica di presidente della Bielorussia, ormai indipendente; rafforzando con referendum e riforme, una volta eletto, i suoi poteri a scapito del parlamento. Fidato alleato del presidente russo Vladimir Putin, nonché deciso sostenitore dell’invasione dell’Ucraina, solo nel 2020 fu accusato di aver manipolato le operazioni di voto che il 9 agosto di quell’anno gli permisero di ottenere il sesto mandato presidenziale, cui seguirono enormi proteste in molte città, che durarono per mesi, con l’arresto di migliaia di persone.
Prove di “democratura” anche in Indonesia
Vincitore al primo turno delle presidenziali del 14 febbraio in Indonesia sulla base di sondaggi (i risultati dello spoglio dei voti saranno resi noti solo il 20 marzo), il settantaduenne Prabowo Subianto subentra a Joko Widodo, membro del Partito democratico indonesiano di lotta. Nazionalista e di destra, sostenuto dal Partito del movimento della grande Indonesia e da gruppi islamici radicali, Prabowo è l’ex marito della figlia del generale Suharto, dittatore indonesiano per più di tre decenni. Proprio durante la sua dittatura Prabowo, allora generale dell’esercito, fu accusato per aver organizzato il rapimento e la tortura di 22 attivisti addirittura prima delle manifestazioni antigovernative del 1998; uscendone incensurato, al più espulso dall’esercito. Negli scorsi anni, come Il Post riferisce, Prabowo, da ministro della Difesa, avrebbe tentato di abolire l’elezione diretta degli amministratori regionali, dichiarando che l’Indonesia avrebbe avuto bisogno di un leader autoritario. Mettendo così a serio rischio ogni conquista democratica, e di rispetto futuro per i diritti umani.
La Finlandia entra nella Nato ed ellegge Alexander Stubb
La Finlandia, ultima nazione a far parte della Nato dallo scorso aprile, l’11 febbraio ha eletto in ballottaggio il suo nuovo presidente. Si tratta di Alexander Stubb, ex Primo ministro di un governo allo scadere dei due mandati, in una nazione con sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Stubb subentra quindi a Sauli Niinistö, presidente non più eleggibile, battendo “il verde” Pekka Haavisto con il 51,6 per cento di preferenze.
Espressione del centrodestra europeista, Stubb è un ex parlamentare europeo con una carriera politica di tutto rispetto alle spalle dei suoi cinquantadue anni. Carriera dalla quale si sarebbe allontanato se Putin non avesse nel frattempo invaso l’Ucraina. E da ex Primo ministro di un governo anti-putiniano (la Finlandia confina per un lungo tratto con La Russia, da qui l’urgenza di aderire al Patto atlantico) Stubb per certo governerà sulla stessa linea del suo predecessore; per lo più deciso a espellere Fidesz, il partito del presidente ungherese Viktor Orbàn, dal Partito popolare europeo, proprio per le sue posizioni euroscettiche e illiberali.