Aretha Franklin, l’immortale Queen of Soul

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di Antonio Facchin

L’arte rende immortali, ma costringe gli artisti a un’inesorabile sfida contro il Tempo. Tempo tuttavia clemente con lei, alla luce dei suoi 76 anni di una vita intensa, travagliata, socialmente impegnata. Così vogliamo ricordare Aretha Louise Franklin a 5 anni esatti da quel 16 agosto 2018 quando ci ha lasciati. Così tanto, infatti, resta della sua intensa e preziosa attività artistica, e del suo impegno ideologico, da vanificare il senso di vuoto che la morte inevitabilmente lascia.

Nata a Memphis nel 1942, in quel Tennessee dell’America del Sud razzista, da un autorevole pastore di una comunità battista di Detroit e da madre pianista e cantante gospel, Aretha eredita le doti materne. Di quella madre che la lascerà, suo malgrado, prima divorziando dal padre, poi morendo quando l’artista avrà solo 10 anni. Il divorzio entra dunque precocemente nella sua vita – a dir poco travagliata – fino a diventarne parte integrante: ne collezionerà due su tre relazioni, tanti quanti i matrimoni, ricavandone una dipendenza da alcol e tabacco che, tuttavia, ne “ispessiranno” il timbro vocale.

Il padre ne comprende subito le potenzialità e le fa da mentore; così l’artista firmerà il suo primo contratto discografico a soli 14 anni. Ma questa è anche l’età in cui diventerà madre del primo di quattro figli, il cui padre resterà per sempre nel mistero. E il mistero avvolgerà buona parte della sua vita, come attestato anche da From These Roots, la biografia scritta a quattro mani con David Ritz pubblicata nel 1999. Si confiderà con il pubblico solo nella sua arte in cui esprimerà tutte le sfumature del dolore, della rabbia, della passione, del suo amore. Portando a suprema espressione “l’arte di emozionare” in musica.

La più grande cantante di tutti i tempi

Aretha Franklin è la più grande cantante di tutti i tempi se solo ne consideriamo la versatilità: si è misurata infatti con tutti i generi musicali, dai gospel e soul di cui è stata regina indiscussa, al rap e hip-hop, passando per la lirica. E per l’originalità con cui l’ha fatto, capace di dare sempre un tocco unico, spesso estemporaneo, alle sue divagazioni. In virtù anche delle sue doti non comuni di pianista che la indussero a “forzare” le corde di un pianoforte così come quelle vocali: due strumenti musicali da far vibrare come quelle delle anime da raggiungere.

Gli inizi, la carriera

Prima di collezionare 52 album , 21 Grammy Awards e 75 milioni di dischi venduti, Aretha Franklin debutta quattordicenne con Songs of Faith (1956). A 18 anni “si converte” (col beneplacito paterno) alla musica secolare: si trasferisce quindi a New York dove John Hammond, già “procuratore” di Count Basie e Billie Holiday, la lega alla Columbia Records. Il primo disco, Today I Sing the Blues (1960) è il suo primo successo di pubblico (e manifesto programmatico). È qui che Aretha inizia a spaziare fra generi musicali diversi misurandosi principalmente col rythm-and-blues. Ma dopo soli sei anni, e una decina di album, cambierà casa discografica grazie a Jerry Wexler della Atlantic Records per la quale torna alle radici gospel. Ne nasce I Never Loved a Man (the Way I Love You) che nel 1967 scala le classifiche di vendita, cui segue I Say a Little Prayer (1968).

Maturando, il suo stile diventa sempre più personale. E in parallelo cresce anche il suo impegno di attivista per i diritti civili quale esponente di spicco della comunità afroamericana (il padre frequentava Martin Luther King). Il successo di Respect (1967) – che assurgerà a simbolo di rivendicazione grazie anche al prezioso testo di Otis Redding – la consacrerà Queen of Soul.

Ma l’artista non dormirà sugli allori: scriverà Think che, a distanza di un anno dal precedente, diventerà l’ennesimo “manifesto” di successo e cameo nel film The Blues Brothers, nella scena in cui Aretha si ribella – in grembiule e pantofole – alle angherie del marito rosticcere. E non sarà l’unica incursione dell’artista nel mondo della celluloide perché il suo nome comparirà anche nel sequel e nel cast tecnico di Sister Act 2 (1993) – film che si “conclude” con A Deeper Love – sette anni dopo essersi misurata col reinterpretare Jumpin’ Jack Flash dei Rolling Stones per l’omonimo film.

(©Getty Images)

Il ritorno alle radici, i duetti

Durante un suo lungo tour in Europa e in America Latina registrerà uno dei migliori album dal vivo di sempre e il primo che sia mai stato auto-prodotto, l’album gospel live Amazing Grace (1972) vincitore di un Grammy Award nel 1973 e di un Grammy Hall of Fame Award nel 1999. Ma gli anni Settanta, quelli della disco-music, la vedranno defilata. Tornerà al successo grazie a Luther Vandross – cantante e produttore di successo – che le procurerà un contratto con la Arista, onorato con Jump to It e Freeway of Love (1985). Con Vandross dividerà la scena in uno dei suoi famosi duetti; ma sono da ricordare anche quello con George Michael, George Benson, Elton John, l’Annie Lennox degli Eurythmics, Michael McDonald e un What Now My Love con Frank Sinatra. Nel 1987 Aretha Franklin diventerà la “primadonna” nella Rock and Roll Hall of Fame cui faranno seguito una serie di importanti riconoscimenti fino al  Presidential Medal of Freedom conferitole da George W. Bush nel 2005. 

Questo malgrado l’artista sia stata esclusivamente sostenitrice dei Presidenti democratici; a partire da Bill Clinton, al cui insediamento alla Casa Bianca dedicherà I Dreamed a Dream, brano contenuto nell’album What You See Is What You Sweat (1991). L’ultima sua produzione discografica, tuttavia, non raggiungerà le vette cui si era abituati. Ma Aretha Franklin Sings the Great Diva Classics (2014) ne suggellerà degnamente la carriera; album ricco di omaggi a Etta James, Adele, Gladys Knight, Barbra Streisand, Alicia Keys e Gloria Gaynor fra tutte, che la porterà al vertice della classifica dei 200 cantanti più grandi di sempre per il magazine Rolling Stone

E  la vedremo esibirsi per la penultima volta (l’ultima sarà di fatto al gala della Elton John Aids Foundation del 2017) durante la cerimonia per il conferimento di un Kennedy Center Honors a Carole King, coautrice del brano You Make me Feel (Like a Natural Woman), al cospetto di un teatro in ovazione. Con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama visibilmente commosso, e al suo fianco la moglie Michelle e la stessa Carole King, presa da incontenibile entusiasmo. Seppur indomita, Aretha appare fisicamente provata da quel tumore al pancreas che l’ha vessata per ben otto anni e che la finirà di lì a qualche mese di distanza.

Un’immagine dall’ultima esibizione al gala della Elton John AIDS Foundation

L’importanza di essere un simbolo

Come giustamente sottolineò Ernesto Assante su Repubblica nel giorno della sua scomparsa, Aretha Franklin «divenne un simbolo: per le donne, perché rappresentava un’idea femminile libera e indipendente, per i neri, nel bel mezzo dell’esplosione del “black power”, perché era in grado di affermare la libertà del suo popolo in ogni nota che cantava, per gli artisti, perché era in grado di vivere il suo tempo, con perfetta sintonia con quanto accadeva nel rock e nel pop, senza dimenticare le radici. Time le dedicò una copertina, definendola semplicemente “singer”, cantante, definizione perfetta, in fin dei conti, perché dava dignità a un mestiere, a un’arte, che fino ad allora era stata confinata nell’universo dell’intrattenimento». E simboliche furono anche le esequie: nella stessa chiesa che accolse Rosa Parks, la prima attivista per i diritti civili della storia afroamericana.

Jennifer Hudson è Aretha Franklin nel biopic Respect (© Quantrell D. Colbert per MGM)
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