di Antonio Facchin
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E dopo Portogallo, Russia, Slovacchia, Tasmania e Senegal, marzo si chiude con le elezioni amministrative in Turchia che, come in Italia, rappresentano un test per la politica nazionale, fondamentale per il futuro del paese. Perché Recep Tayyip Erdogan, pur avendo dichiarato di non aspirare a un nuovo mandato presidenziale (ma c’è che scommette il contrario), spera da questa tornata elettorale in un recupero delle città “perse” nel 2019; soprattutto Istanbul, sua città natale, dove nel 1994 iniziò la sua ascesa in qualità di Sindaco.
Ciò non solo per la rilevanza economica e sociale della città, ma anche perché teatro di un duello con il Sindaco uscente, Ekrem Imamoglu, candidato nella lista del CHP per un secondo mandato e aspirante leader dell’opposizione, non essendosi ancora candidato contro il presidente. Ma la rielezione a Sindaco lo consacrerebbe il suo più temibile avversario.
Come riferisce il Post, “le ultime elezioni locali in Turchia, che si svolsero nel giugno del 2019, furono un’enorme sconfitta per Erdogan. Il suo partito, l’AKP, perse il controllo delle tre città più importanti in favore dell’opposizione, composta principalmente dal CHP, il partito kemalista che è la principale forza d’opposizione, dall’HDP, il partito curdo, e dal partito nazionalista IYI (per “kemalista” si intende un partito che segue l’ideologia del fondatore della Turchia moderna, Kemal Atatürk; oggi il CHP è tuttavia un partito tendenzialmente di centrosinistra, sebbene mantenga alcuni elementi nazionalisti)”. Ma un’opposizione frammentata uscì poi sconfitta dalle presidenziali del 2023, consegnando a Erdogan il suo terzo mandato presidenziale.
E proprio la frammentazione dell’opposizione è il principale ostacolo alla rielezione di Imamoglu; oltre al fatto che un governo sempre più autoritario controlla il 90 per cento circa dei media. Le elezioni amministrative turche chiamano oggi al voto quasi 60 milioni di cittadini, in un clima di forti tensioni.
La svolta senegalese
Paese di rilevanza strategica nel Sahel, l’ampia porzione centrale d’Africa fra le più instabili del Pianeta, il Senegal ha eletto (con il 54,28% dei voti convalidati dal Consiglio costituzionale, l’organo più autorevole del paese in materia di risultati elettorali, a una settimana dalla chiusura delle urne) Presidente il 44enne Bassirou Diomaye Faye, nonostante il tentativo di rinviare le elezioni da parte di Macky Sall, il Presidente uscente in carica dal 2012. Faye, è fondatore con Oumane Sonko di Pastef, il Partito dei patrioti africani per il Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità, sostenuto da quella generazione che vede nell’Europa la culla della realizzazione dei propri sogni (come raccontato da Matteo Garrone in Io Capitano).
Partito avversato tuttavia con la reclusione dei suoi fondatori; «Faye era stato scarcerato solamente la sera del 14 marzo grazie a un’amnistia generale decisa dal presidente Sall come misura di “pacificazione sociale” per placare le proteste», riporta il Post. Diventando dunque il nuovo Presidente di un “bastione” occidentale in terra africana, incarnazione di un “panafricanismo di sinistra”, sovranista, sostanzialmente anti-francese, di professione religiosa musulmana. Faye ha vinto grazie anche alla volontà di rinegoziare i contratti con le multinazionali straniere per lo sfruttamento di miniere, pesca e delle riserve di petrolio e gas naturale, e per la volontà di affrancare la nazione da un retaggio coloniale (La Repubblica).