Dogman: la sorprendente rinascita dell’ultimo reietto di Luc Besson

di Antonio Facchin

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Dogman di Luc Besson (la recensione)

Al cinema da giovedì 12 ottobre, distribuito da Lucky Red, Dogman di Luc Besson ha già fatto molto parlare di sé. Sin da quando l’80° Mostra del Cinema di Venezia non ha premiato la straordinaria prova di recitazione dell’attore protagonista Caleb Landry Jones, dato per candidato certo ai prossimi Oscar: l’attore texano già premiato a Cannes nel 2021 per Nitram, dopo essersi distinto in Barry Seal – Una storia americana (2017) e Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017). Questa volta in un film narrato al passato dove i cani sono a tutti gli effetti attori comprimari. Film peraltro omonimo del buon Dogman di Matteo Garrone che ha autorizzato di buon grado il “gemellaggio”.

Caleb Landry Jones è Doug, il Dogman di Luc Besson
Caleb Landry Jones è Doug, il Dogman di Luc Besson (©ShannaBesson)

L’ultimo reietto di Besson

Ultimo di una serie di reietti o degli anti-eroi che hanno segnato la produzione (e fatto la fama) cinematografica di Luc Besson, Douglas, Doug per gli “amici”, (tra)vestito da Marilyn è – coperto di ferite – alla guida di un furgone pieno di cani quando la polizia lo cattura e lo spettatore ne fa una prima conoscenza. Conoscenza che si farà via via più articolata grazie al racconto di sé, in forma di flashback, alla psichiatra dell’istituto penitenziario.

Jonica T. Gibbs è la psichiatra dell'istituto penitenziario in Dogman di Luc Besson
Jojo T. Gibbs è la psichiatra dell’istituto penitenziario (©ShannaBesson)

La storia di Doug

New Jersey. Crudelmente vessato dal fratello e dal padre nel nome del Dio di un’America puritana, Doug finisce dopo la solita lite in famiglia relegato in una gabbia dei cani da combattimento del padre. E con quei cani è costretto a condividere tutto: dal poco spazio al cibo – quello lasciatogli dalla madre, anch’essa vittima di violenza, che scappa per assicurare al terzo figlio in arrivo un futuro migliore del suo. La condizione che vive è a dir poco disumana, ma gli viene inflitta “perché Dio lo corregga”. E sarà solo l’amore, ricambiato, per quei cani suoi compagni di sventura, e per la lettura di quanto trova fortuitamente a tenerlo in “vita”. Fin quando, per far col suo corpo da scudo a dei cuccioli, un colpo partito dal fucile paterno armato per ucciderli lo condanna per sempre all’inabilità.

Doug riesce così a uscire dalla gabbia dopo un tempo che non sa neanche quantificare ma, affidato ai servizi sociali e ormai costretto su una sedia a rotelle, passa di fatto da una condizione di prigionia a un’altra. Sarà l’amore per Shakespeare trasmessogli da un’aspirante attrice che incontra sulla sua via a ridestare la sua immaginazione e a farlo rinascere. E come accade in ogni tragedia che si rispetti – perché Dogman lo è a tutti gli effetti – dal dolore si origina catarsi e rinascita.

Ma Doug, presto afflitto da un nuovo abbandono, si rifugia intanto nella “sicurezza” dei suoi cani perché sa che loro non lo tradiranno mai. Anzi, lo comprendono, assistono, aiutano, amano; lo ascoltano attenti anche quando legge loro i versi di Romeo e Giulietta. Ma cresce man mano in lui la voglia di riscatto. Così fa dei suoi fedeli compagni di vita un vero e proprio esercito con cui corre in soccorso, anche se su una sedia a rotelle, degli altri “diversi” vessati come lui, spesso da gente ricca, potente, pericolosa.  E per loro vendetta commette più di un crimine – quando non fa la drag queen alla disperata ricerca di una diversa identità o condizione fisica – e nel tentativo di sbarcare il lunario, per sé e i suoi “figli”. Preservando tuttavia la sua umanità,  pur (o forse grazie all’essere) lontano da quel genere umano che non ha mai esitato a discriminarlo. Nel pieno rispetto di un suo Dio, come farebbe un agnostico.

Una scena di Dogman di Luc Besson
Una scena di Dogman di Luc Besson (©ShannaBesson)

I cani “comprimari” di scena

Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”: dal motto di Alphonse de Lamartine prende forma il film che ha impegnato un’ottantina di cani in scena. E una relazione a tutti gli effetti paranormale è quella che vi viene raccontata: tra il protagonista e i fedeli comprimari sembra esistere infatti un rapporto di telepatia probabilmente instauratosi grazie a un costante, quotidiano training fuori scena che ha coinvolto sia Landry Jones, sia Besson per un’ora, ogni mattina, per tutta la durata delle riprese. Il risultato è stupefacente.

Il regista Luc Besson e Caleb Landry Jones sul set di Dogman
Il regista Luc Besson e Caleb Landry Jones sul set di Dogman (©ShannaBesson)

Il latrato degli innocenti

Parte ispirato a un fatto di cronaca, parte a esperienze vissute da Luc Besson –  regista nonché sceneggiatore di Dogmanil film rende esplicito omaggio in primis a Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme e al Joaquin “Joker” Phoenix di Todd Philipps (2019); al dumasiano Robin Hood ma soprattutto alla vicenda terrena di Gesù Cristo, di cui sono ricorrenti i riferimenti iconografici. A William Shakespeare, ma anche a tutti quei personaggi che hanno contribuito a conferire uno stile “bessoniano” al cinema d’azione; quello al limite di verosimiglianza con inconfondibile stile francese, a partire da Nikita (1990). Così Dogman ricorda anche la Mathilda interpretata da un’adolescente Natalie Portman in Léon (1994), la Leeloo di Milla Jovovich de Il quinto elemento (1997) fino alla Lucy (2014) cui ha dato volto su schermo un’intensa Scarlett Johansson. Ma a differenza loro, e al di là del sesso, Doug si riscatta a tutti gli effetti grazie a un’umanità mai perduta; mantenuta viva grazie all’arte e all’amore (dei suoi cani, beninteso) nonostante tutto, e tutto il genere umano, che attacca con più astuta e lucida violenza di quanto Besson ci avesse abituati. E con sottile ironia.

Un film su una sofferenza indefinibile

Dogman è dunque un film su un dolore vissuto, profondo, inspiegabile, indefinibile, di cui si può solo prendere coscienza perché – come Doug dichiara – lamentarsi è appagare il diavolo. Una presa di coscienza che è allo stesso tempo il vero riscatto del personaggio, che ha sempre chiaro in sé che a una causa corrisponde ineluttabilmente un effetto. Un personaggio che si fa amare soprattutto perché si assume piena responsabilità di fronte al suo Dio dei crimini commessi, sulle note di un’allusiva (come lo è tutta la colonna sonora) Non, je ne regrette de rien di Edith Piaf: catartico per lui, così come per noi.

IL TRAILER DEL FILM

Dogman di Luc Besson
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